Cenni storici

LA STORIA
tratto dal libro di Giordano Dellai intitolato "Pozzo, la Friola e la contrada degli Scaldaferro" del 2008
 
Giovanni Mantese, illustre storico della Chiesa vicentina, non ebbe dubbi: la chiesa campestre di San Valentino è di indiscutibile origine benedettina. Ed in effetti, in assenza di prove certe, è molto alta la probabilità che questa chiesetta, situata a circa un Km a nord della chiesa parrocchiale di S. Maria, a poche centinaia di metri dall’argine destro del Brenta lungo il quale correva la “Strata”, un’antica strada che andava ad Angarano e nell’altra direzione forse portava a Padova, sia stata fondata dal monastero dei SS. Felice e Fortunato di Vicenza, che in epoca medievale aveva in mano buona parte del paese di Pozzo e la giurisdizione della chiesa di S. Maria, cappella della pieve di Bressanvido. Questa chiesa ed il suo santo titolare hanno ben presto ispirato agli abitanti locali l’organizzazione il 14 febbraio di ogni anno di una festa di grande richiamo, che negli ultimi decenni èManifesto  Fiera San Valentino  1982diventata una fiera conosciuta ed apprezzata anche oltre i confini regionali.
Ma quando è stata costruita la chiesetta di San Valentino? E da quanto tempo da queste parti si pratica una festa così popolare? Proviamo a rispondere a queste domande, cominciando dalla prima. Sicuramente questa chiesa è stata edificata in età medievale e molto probabilmente prima del 15 agosto 1311, quando il vescovo Sperandio avrebbe consacrato la nuova chiesa di Pozzo, intitolata a S. Maria, “fondata e dotata di cinque campi dal Comune di Pozzo in contrada della Croce e di San Valentino”. Dunque, a giudicare da questo documento, giuntoci in copia non sicura, il toponimo “San Valentino” esisteva già all’inizio del Trecento, un particolare che farebbe pensare alla presenza già in quell’anno di un capitello o di un piccolo oratorio dedicato al santo. Sarebbero stati i monaci vicentini di San Felice a costruire la chiesetta di San Valentino, santo molto venerato dall’ordine benedettino che dal VII secolo ne gestì anche le spoglie nella basilica di Terni, la città umbra di cui Valentino fu vescovo fino alla morte, avvenuta il 14 febbraio 273 per ordine dell’imperatore Aureliano.
Fin dalle sue origini la chiesetta di San Valentino fu gestita dal parroco di Pozzo, che non a caso si definiva “rettore delle chiese di S. Maria e di S. Valentino”. L’importanza di questa chiesetta sarebbe comprovata da un particolare che riguarda il patrimonio immobiliare della parrocchia: su 21 campi vicentini posseduti nel già citato inventario del 1447, ben sette, praticamente un terzo, quasi tutti arativi con piccoli lotti di prato e bosco, erano situati nella contrada di San Valentino. In quell’anno la chiesa era sicuramente esistente perché i monaci di San Felice e San Fortunato di Vicenza investirono il prete albanese Alessio di Giorgio del ruolo di rettore delle chiese di S. Maria e S. Valentino di Pozzo. Inoltre, qualche anno prima, in un testamento del 6 febbraio 1442 la testatrice ordinò agli eredi di versare due lire per la riparazione della chiesa di San Valentino di Pozzo. Più tardi, il 15 agosto 1528, in occasione della concessione della parrocchia di Pozzo al “prè” Giovanni Tamburini, la chiesetta di San Valentino fu definita “cappella”, un termine che indicava una realtà minore rispetto alla “chiesa” di S. Maria.
Ma un particolare ancora più rilevante, in merito stavolta alle origini della festa per il santo, si ricava da un documento del 1517. Don Gianantonio Priante, parroco di Pozzo dal 1499 al 1528 ma anche notaio del paese, tra le sue carte notarili lasciò anche una specie di rendiconto delle entrate e delle uscite di quell’anno iniziato male perché in gennaio era morto suo padre. Dopo la Memoriade danarj… habudj da diverse persone, in tutto 60 troni e 7 marchetti, c’era anche la conta dei Danari spesi, piena di varie voci, tra cui spiccano 2 troni e 10 marchetti per il pesse per la festa de S. Valentin e 3 troni per il pan per dita festa.
Una festa importante, dunque, organizzata dal parroco di Pozzo, che tirava fuori dalle sue capienti tasche una cifra considerevole, 5 troni e 10 marchetti in tutto, per procurare del cibo non tanto per sé (sarebbe stata un’esagerazione), quanto piuttosto (è il caso di pensarlo!) per i parrocchiani e i foresti che anche il 14 febbraio di quel 1517 erano accorsi a celebrare il santo tanto amato, avevano riempito in ogni ordine di posto l’interno della piccola chiesa, avevano pazientemente aspettato nel sagrato il loro turno di entrata, avevano gustato un po’ di quel pane e del pesce premurosamente acquistati dal parroco, convinti di far parte dello stesso popolo di fedeli, di essere tutti una chiesa sola, di godere al bisogno dell’intercessione e dell’aiuto di San Valentino. E, soprattutto, convinti che quella di San Valentino a Pozzo era una festa, una festa vera, non solo religiosa, durante la quale, tra una chiacchiera e l’altra, tra un boccone di pane ed un assaggio di pesce, capitava pure di parlare d’affari, del mondo, della vita. Una festa che in quel 1517 rappresentava il prodromo dell’attuale fiera di San Valentino.
D’altronde la chiesetta, e la relativa festa, di San Valentino rendevano molto alla parrocchia di Pozzoleone. In occasione della visita del vescovo di Vicenza, mons. Michele Priuli, svoltasi venerdì 23 settembre 1583, il parroco di Pozzo, don Marcantonio Stoppato, protestò che al reddito totale della parrocchia, di circa 200 ducati, non si dovevano assolutamente aggiungere i 50 provenienti dall’oratorio di San Valentino “che erano suoi!”, evidentemente frutto di un impegno particolare dovuto anche all’organizzazione di una festa tanto sentita.
Comprensibilmente incuriosito dalle parole del parroco di Pozzo, tanto più che i suoi predecessori non l’avevano mai fatto in virtù dell’ancora vigente giurisdizione benedettina, il vescovo di Vicenza mons. Michele Priuli si recò a visitare questa chiesa di San Valentino, definita da don Marcantonio “di devozione massima” e quindi degna di tutta l’attenzione possibile. Il vescovo non risparmiò le disposizioni, segno che non tutto era di suo gradimento: bisognava porre una mensa di marmo sull’altare maggiore, altrimenti non si sarebbe potuto celebrare, poi procurare allo stesso altare tovaglie, croce e candelabri ed una pianeta rossa con finimenti; c’era anche un altare laterale, marmoreo e non consacrato, che aveva bisogno di una pala e, sul parapetto, di croce e candelabri. Il vescovo raccomandò anche di mettere grate di ferro sulle finestre, riparare il tetto e collocare una pila di acqua benedetta vicino alla porta. Nella chiesa si celebrava messa solo alla prima domenica del mese più altre tre volte all’anno, ma in queste occasioni accorreva una gran massa di fedeli.
Dunque tanta gente, tanti fedeli. Tutti a celebrare il loro santo preferito, a vivere intensamente una festa tra le più attese nelle case di Pozzo e del comprensorio. Al parroco don Giovanni Tomasoni il 3 maggio 1641 presumibilmente baluginavano gli occhi nello spiegare al vescovo Bragadin quante opere meritorie si potevano ascrivere ai benefici effetti di quella chiesetta: È annessa à questa Chiesa (di S. Maria)la Chiesa campestre di San Valentino che era anticamente la Parochiale, ove si celebra ogni prima del mese et i mercordì, et altri giorni per esserci gran divotione et concorso non solo di quelli del luoco, ma d’altri luochi circonvicini. Tanto zelo, se da un lato rendeva comprensibile il lapsus storico (la chiesetta di San Valentino non è mai stata la parrocchiale di Pozzo), dall’altro contribuiva a rendere la chiesa sempre più conosciuta e frequentata: dalle quindici messe annue si era passati alle circa settanta, grazie all’opera di un parroco che durante la sua permanenza a Pozzo (1629-1652), oltre alla ricostruzione della parrocchiale di S. Maria, si era dedicato anche alla promozione dell’oratorio di San Valentino.
Passavano gli anni, si succedevano i parroci di Pozzo, ma la fama della chiesetta e della festa di San Valentino rimaneva intatta. Verso la fine del Seicento, il 25 aprile 1687, don Salvatore Piva disse di celebrare nella chiesa di San Valentino ogni prima domenica del mese ed in altri quattro o cinque giorni feriali, sempre che il tempo ne permettesse l’accesso, e poi quando la devozione del popolo non lo imponesse; nella festa di San Valentino in particolare vi si celebravano molte messe per il grande concorso di popolo.
A quel tempo la chiesa di San Valentino aveva un unico altare con una pala di legno raffigurante un’immagine di San Valentino, c’era una croce di oricalco e quattro candelabri di legno; secondo il delegato del vescovo che la visitò, bisognava provvedere l’altare di tutte le cose necessarie ad una decente manutenzione; vi era anche una reliquia di S. Valentino martire nel tabernacolo di legno all’interno di un panno di seta contenuto in un vaso di vetro con autorizzazione del 19 novembre 1676 ed il sigillo del vescovo Giuseppe Civran del 14 febbraio successivo; la sacrestia era posta dietro l’altare, mentre all’interno della chiesa, sulla destra guardando l’uscita, si potevano vedere alcuni ex voto ed antiche immagini dipinte, dall’altra parte la finestra era senza alcun telo.
A fine secolo, dunque, la chiesetta di San Valentino era un po’ in declino. Non a tal punto, però, da non essere scelta dal parroco don Piva come sua dimora eterna: Adì 20 Ottobre 1700. Il Molto Reverendo signor Don Salvador Piva Parroco di questa Chiesa di Pozzo rese l’anima a Dio… e il suo corpo fu sepolto nella Chiesa di S. Valentino di questa parrocchia appresso il campanile il giorno susseguente 21.
Parroci sepolti, ma anche parroci eletti in questa chiesa così importante per la vita di Pozzo: il 26 febbraio 1712 il notaio Bortolamio Cerato fu Pellegrino testificò la decisione della convicinia di Pozzo, riunita nella chiesa di S. Valentino, di scegliere entro una gamma di 21 concorrenti don Marcantonio Alessi quale nuovo parroco di Pozzo. E tra una convicinia e l’altra, tra una decisione da prendere ed una riunione da organizzare, agli amministratori comunali di Pozzo restò il tempo e l’opportunità di osservare lo stato di degrado della chiesa, che abbisognava proprio di una ristrutturazione o, addirittura, di una riedificazione. Si optò per la seconda ipotesi: nel 1749 “la pietà dei devoti eresse” la rinnovata chiesa di San Valentino, che da quel momento vide staccarsi il suo cordone ombelicale con la chiesa di S. Maria, divenne di proprietà comunale, patrimonio della comunità civile.
La grossa novità fu notata anche dal canonico Bartolomeo Maria Rigati, che il primo maggio 1769 coadiuvò il vescovo di Vicenza mons. Marco Corner, in visita pastorale a Pozzo. Mentre il vescovo si tratteneva in canonica, il convisitatore fu mandato a visitare l’oratorio pubblico di San Valentino “appartenente alla comunità del luogo”. La chiesa aveva un aspetto ben diverso in confronto alla precedente visita vescovile: l’altare era in pietra dotato di portatile in mensa, ornato e provvisto di tutto; davanti all’altare c’era una custodia contenente le ossa di San Valentino; nella chiesetta si celebrava la messa ogni prima domenica del mese, nella festa della Resurrezione e a Pentecoste da parte del parroco di Pozzo o di un suo sostituto; l’oratorio era pulito e riparato, aveva un piccolo campanile da cui pendevano due campane. Il convisitatore trovò da ridire solo sulla sacrestia che sospese, per avere trovato due croci rotte e lacere e nessuna suppellettile, dato che quando vi si celebrava tutto l’occorrente era portato dalla chiesa parrocchiale.
Il passaggio da parrocchiale a comunale dell’oratorio di San Valentino accentuò il carattere mondano della relativa festa. Se ne accorse anche il parroco di Friola, don Nicola Lovato, che il 28 ottobre 1872 scrisse alla Curia vicentina chiedendo, a promozione della devozione del Sacro Cuore di Gesù, di istituire una festa per l’apposita nascente congregazione di Friola, da porsi in febbraio nella “domenica della sessagesima”. A giro di posta la Curia diede il suo assenso, ma il 20 gennaio 1873 lo stesso parroco sostenne che bisognava spostare la festa alla terza domenica dopo Pentecoste, giorno non interessato da altre solennità o distrazioni varie. Per motivare l’istanza, subito accettata dalla Curia, don Lovato scrisse: In quella domenica si fa qui presso nella vicina parrocchia di Pozzoleone la solennità detta di S. Valentino che è propriamente una distrazione grandissima per le parrocchie vicine, a segno tale che dopo la prima Messa, non si ha più nessuno alla Chiesa propria, tutti portandosi a quella solennità che viene ad esser come una fiera.
La festa continuava a svolgersi la domenica dopo la ricorrenza di San Valentino, giorno in cui nei primi anni del Novecento in un prato davanti alla chiesetta accorreva una grande quantità di persone e si ballava allegramente all’aria aperta. Ma dalla Curia di Vicenza si guardava con una certa apprensione ai progressi di questa festa, ormai non più prettamente religiosa. Nel febbraio 1928 il vescovo mons. Ferdinando Rodolfi diede ordine al parroco di Pozzoleone di sospendere le sacre funzioni e di chiudere l’oratorio di San Valentino, se dall’autorità civile non fosse stato impedito “il disordine del ballo pubblico in occasione della sagra”. L’autorità civile, ovvero il podestà Giandomenico Rigoni, non ottemperò alle disposizioni del vescovo e dunque al parroco non restò altro che obbedire agli ordini del suo superiore.
I fatti di quella domenica 19 febbraio 1928, filtrati dal più classico punto di vista “governativo”, sono raccontati in un articolo del giornale “Vedetta fascista”, apparso mercoledì 22 febbraio ed intitolato “L’esito grandioso della Sagra di S. Valentino”: L’altro giorno ebbe luogo la Fiera di S. Valentino. Non è esagerato l’aggettivo di grandiosa perché veramente enorme fu il concorso di popolo fin dal mattino alla Mostra-Fiera. Frequentati ed ammirati gli stand specialmente della Ditta Cannonieri di Thiene, della Ditta Grazioli di Gazzo Padovano ed altre per le macchine agrarie e casearie esposte. Nel pomeriggio poi alla tradizionale Sagra accorse una infinità di persone di ogni ceto, di ogni età, con ogni mezzo. Come fu già pubblicato nel giorno del Santo (14 scorso) seguì con numerosissimo concorso la “festa religiosa”. Nessuno spettacolo o gioco si esercitò in detto giorno per il doveroso rispetto alle Funzioni religiose. I raggiri per l’ostruzionismo della caratteristica ricorrenza non hanno raggiunto gli scopi reconditi o indiretti. La giornata magnifica col suo sole festoso irradiava i vividi colori delle macchine esposte, le smaglianti reclames dei circhi, delle giostre, dei baracconi, le allegre maschere non attese e numerose e le eleganti toilettes del sesso femminile.
In questo turbinio di giochi e di colori ecco, inatteso, il colpo di scena: Fu generale sorpresa il constatare al mattino che il piccolo Oratorio non era stato aperto. Per antichissima tradizione, la cui data di nascita è ignota, anche nella domenica successiva alla festa religiosa, la Chiesetta è tenuta aperta. Il popolo di cento paesi conviene nei prati e v’è chi non dimentica, anche in giornata di allegria, il sentimento religioso e prima anche di recarsi ad un divertimento qualsiasi, ballo compreso, non omette di fare una visita al modesto Santuario e offrire la spontanea elemosina. Era noto a tutti del Comune, e (cosa da rilevarsi senza commenti) “a tutti gli intervenuti dei vari paesi”, che non sarebbe stata aperta la Chiesetta “perché si doveva ballare”. Si diceva che fosse irreperibile la chiave.
Il redattore del giornale littorio si preoccupò allora di giustificare il comportamento dei più intraprendenti: La protesta divenne indignazione, il popolo si aggiudicò il sacrosanto diritto acquisito del rispetto alle tradizioni secolari, si sentì offeso anche nelle intime convinzioni religiose, si aperse la porta della Chiesetta e come una fiumana la invase. E l’affluenza fu numerosissima e costante per tutta la giornata. Diversa la visione del parroco don Carlo Camelotto, che nei suoi registri annotò: Il podestà Giandomenico Rigoni fece aprire forzatamente le porte dell’oratorio nella domenica della sagra.
Intanto nell’articolo della “Vedetta fascista” continuava il tentativo di giustificare quello che agli occhi dei più credenti poteva apparire come un sacrilegio: Si provvide tosto alla sorveglianza ed a dirigere il movimento a mezzo di giovani appartenenti alla Milizia. Come fu sempre gli oboli dei fedeli piovevano sull’Altare ed alla sera furono conteggiate ben lire 455 che saranno destinate ad arredamento della Chiesa con oggetti di rito di cui è del tutto disadorna e sprovvista. Inutile dire che tutti i baracconi, gli spacci, i giocolieri ecc., compresa la Sezione Combattenti che con ottima orchestra gestì l’unico ballo su ampia piattaforma, una pesca di beneficenza, un posteggio biciclette ed altro, fecero ottimi incassi. I due circhi si sono riuniti in uno solo che si fermerà per alcune sere nella piazza del paese. Nessun inconveniente si verificò.
Per ultima, poco consona ad uno stile giornalistico nonché tendenzialmente allusiva, l’arringa finale: Unico rilievo, gravissimo perché generale e da parte anche “di tutti i forestieri”, fu l’anacronismo di cui sopra al quale, del resto, senza scrupolo di profanazione il popolo ha trovato rimedio. Si hanno pure documentate prove di propagande fatte “in altri siti” per il boicottaggio della nostra antichissima, tradizionale Sagra, ma le cose sono note “in altri siti ancora” e… potranno avere degli strascichi. Per ora ci basta che sia nota la verità e ciò perché non venga subdolamente e progressivamente diffusa la voce che di S. Valentino fra qualche anno non sarà più festeggiata la ricorrenza. Possiamo anzi, sin d’ora preannunciare che ne sarà sempre maggiormente curato lo sviluppo.
Se per l’organo di informazione fascista la decisione di tenere chiusa la chiesa di San Valentino fu puro “anacronismo”, per il vescovo di Vicenza era una cosa ben fatta, mentre l’apertura del sacro edificio stante il suo diniego odorava terribilmente di profanazione. Si verificò una grave vertenza tra l’autorità religiosa e quella civile, alla fine della quale, come annotò senza indulgere a trionfalismi don Camelotto, il podestà fu costretto a riconoscere il suo torto e a riparare al suo errore. Il primo giugno 1930 a Pozzoleone venne persino il vescovo per rimediare i gravi torti subiti dal parroco e compiere un rito “di riparazione” del sacrilegio nella chiesetta di San Valentino.
Dal 1956 la fiera di San Valentino si è trasferita nel centro del paese di Pozzoleone, assumendo definitivamente una dimensione civile e connotandosi particolarmente per l’esposizione di macchine, attrezzi e prodotti agricoli. Nel frattempo la chiesa di San Valentino è tornata sotto l’amministrazione diocesana, è stata sconsacrata ed ora versa in stato di sostanziale abbandono.
 
LO SVOLGIMENTO
tratto dal libro di Giordano Dellai intitolato "Pozzo, la Friola e la contrada degli Scaldaferro" del 2008
Lo scrittore Giovanni Lanaro, nativo di Longa di Schiavon, nel suo libro “Si viveva così” del 2006 ha pubblicato il racconto “A San Valentin”, che descrive al meglio la magia della fiera quando ancora si svolgeva davanti alla chiesetta.
«Già dopo la Befanasi pensava alla grande festa. Gli interessati preparavano per tempo le cose, gli oggetti da porre invendita. In casa e soprattutto nei filò nelle stalle, quando le serate iniziavano al calar del sole e si protraevano per ore ed ore, tanto da sembrare interminabili, se ne parlava a lungo ricordando i fatti salienti dall’anno precedente. Ogni capofamiglia faceva i conti delle cose e degli attrezzi di cui doveva fornirsi per la futura stagione. San Valentin veniva a cadere in un momento particolare dell’anno, cioè sul finire dell’inverno; per questo costituiva una specie di apertura della nuova annata. La festa era sorta come commemorazione religiosa in onore del santo; però poi col passare del tempo assunse l’aspetto di manifestazione profana; per questo era chiamata anche fiera di San Valentin. I due momenti vennero espressi con un termine tipicamente veneto: sagra, cioè festa paesana in cui si mangiava la sagra.
Quella di San Valentino aveva una risonanza molto vasta, perché vi affluiva gente da tutti i dintorni e da molti chilometri. I miei parenti venivano giù apposta dalle colline della pedemontana marosticense. Non c’era gelo, neve o pioggia che rallentasse la fiumana dei partecipanti, perché ogni anno questa festa aveva qualcosa di nuovo, d’interessante e di attraente soprattutto per il mondo contadino. Si era in un’epoca in cui il lavoro in campagna era l’unica occupazione da cui ogni famiglia traeva il suo sostentamento.
Gli interessati partivano di buon ora e poi percorrevano scorciatoie fra i campi per giungervi per tempo: sgalmare ai piedi, cappello in testa ed un grande tabarro scuro con cui avvolgevano tutto il corpo. Qualcuno si serviva ancora di quello grigio verde, retaggio della grande guerra, ormai consunto e con vistosi rattoppi. Ci si difendeva dal freddo con calze fatte a mano ed un maglione prodotto dal paziente lavoro a ferri durante il filò. I ragazzi sfoggiavano il berrettone trovato nella calza della Befana. Quel giorno i poveri utilizzavano tutti i percorsi possibili attraverso la campagna, mentre i benestanti tiravano fuori il biroccio e con la cavalla più bella si recavano alla festa. Solo qualcuno utilizzava il carretto tirato dall’animale ragliante, comunemente chiamato Nino. Lo si riempiva di amici e parenti ed poi tutti insieme facevano il percorso fra risate, frizzi e canti. Era una specie di viaggio d’avventura, come andare all’estero per noi oggi. Quella mattina ero svegliato di buon ora dal fracasso delle ruote dei veicoli sulla strada sassosa. Pochi utilizzavano la bicicletta, perché questo mezzo non era diffuso come oggi e poi costava quasi l’equivalente di due, tre mesi di lavoro che corrispondeva al costo di una mucca, allora considerata unità di conto negli affari di una certa importanza. Un giovane in bici faceva sempre colpo su una ragazza in cerca di moroso.
[…]
Quand’ero ragazzetto, la festa si divideva in due mo­menti: quello religioso e quello profano ed erano ben distinti. Al mattino c’era la messa, nel pomeriggio la processione con le reliquie del santo. Quel giorno un sacerdote a fianco dell’altare dava la benedizione a chi lo chiedeva. La devozione al santo era antichissima; forse risaliva al primo Medio Evo, a giudicare dalla modestia dell’edificio. L’interno era un po’ più grande di una stanza; entrarvi era sempre un’impresa. Alla manifestazione del mattino intervenivano uomini di una certa età e gente interessata a vendere o a comperare determinate cose. Era la festa tipica della gente dei campi secondo usanze antiche, perché su quella spianata erano esposti gli oggetti e gli attrezzi più impensati che facevano parte del mondo contadino.
A mano a mano che ci si avvicinava al posto si udiva un ronzio sommesso, simile a quello fatto da un’arnia in piena estate; questo poi andava via via crescendo fino a trasformarsi in chiasso, da cui emergeva ben distintamente il suono dei grammofoni a manovella che le varie giostre ed i vari baracconi avevano. Tutti a volume sostenuto; per questo quando ci s’infilava fra la folla, si doveva alzare il tono della voce per farsi capire. I venditori a loro volta gridavano a più non posso per attirare l’attenzione dei clienti. Questo frastuono non era tanto fastidioso, perché andava a spegnersi fra il verde e lungo le grandi siepi della campagna circostante. Un senso di eccitazione prendeva ogni partecipante: il venditore per la voglia di smaltire la merce esposta, il compratore per accaparrarsi l’articolo migliore. Gli uo­mini partivano da casa col portafoglio gonfio di carta moneta con l’intento di fare qualche buon affare; però all’osteria o in mezzo a quella ressa il “sacro” contenitore delle palanche talvolta si volatilizzava a causa dell’intervento quasi misterioso di lestofanti molto specializzati e ben esercitati nell’arte del borseggio presenti in ogni angolo quel giorno. Agivano in modo fulmineo ed impercettibile e con la stessa rapidità sapevano dileguarsi. Ogni anno si lamentavano fatti del genere. A controllare questa manifestazione non c’erano vigili o carabinieri. Ognuno si arrangiava e di conseguenza si comportava come medio gli sembrava.
Descrivere com’erano disposti i venditori e le bancarelle è quasi impossibile, perché non c’era un ordine. Gli unici punti di riferimento erano costituiti dalla chiesetta e dalla stradina vicina. In caso di cattivo tempo il posto si trasformava in un’autentica fangara o meglio in una palude dove ci si muoveva se muniti di buone sgalmare o scarponi; quelli larghi con tanto di brocche.
C’era l’angolo dove di solito si mettevano i venditori di strope, detti per questo stropari. Questo vimine, raccolto in fasci, era assai ricercato, perché serviva durante la potatura delle viti. Le più piccole e flessibili senza difetto erano pregiate e perciò ricercate. Il proprietario cercava in tutti i modi di vendere le sue strope. Gli interessati le tastavano e poi ne prendevano una; la giravano su se, stessa per saggiarne l’elasticità e alla fine domandavano il prezzo. Se questo era conveniente, ne comperavano vari mazzi, altrimenti passavano oltre. A volte si verificava qualche disputa fra i vari espositori, perché l’uno cercava di denigrare il prodotto dell’altro. Erano sceneggiate tragicomiche per i gesti ed il linguaggio che essi adoperavano. I vari tipi di vimine erano raccolti lungo il greto del Brenta.
[…]
Più avanti s’incontrava Bepi, detto “El Rosso” dal colore dei capelli e della bar­ba; un personaggio così singolare nell’aspetto e nei modi che sembrava venuto da un altro mondo. Aveva l’abitudine di ripetere ad ogni pié sospinto l’intercalare: “Vero a”. Era aiutato da tre, quattro figli, rossi pure lo­ro e per di più bruttoti per la faccia ricoperta di pane, cioè di efelidi. Tutti furbi come il loro padre. Erano maestri nel loro mestiere, perché sapevano imbagolare, cioè abbindolare, i clienti, mentre correvano qua e là lungo il banco per servire meglio e più in fretta e nello stesso tempo decantavano le qualità dell’articolo richiesto. Sul banco avevano in esposizione tutti gli articoli in metallo per la casa e per i lavori dei campi, come coltelli grandi e piccoli con lama diritta o ricurva ed anche con punta tozza indispensabile per l’innesto delle piante e perfino quelli particolari per la castratura degli animali. C’erano roncole, accette, anche me­nare o manare, per il taglio della legna e poi seghe, segoni, quelli a due manici, quindi forbici, cesoie e mille altri articoli. In un angolo erano esposti perfino macinacaffè a mano con tanto di marchio di fabbrica: “Tre Spade”, molto noto allora e vicino c’era la tipica boccia per tostare in casa le granaglie con cui si faceva poi il caffè. Davanti al banco del Rosso si formava sempre un capannello di curiosi attirati dalla quantità e dalla varietà della merce esposta. Ma la fila dei venditori continuava lungo i margini del campo alternandosi a giostre e baracconi. Erano tanti e con i prodotti così diversi che era difficile poi ricordarli tutti. Mi veniva ogni volta il mal di testa quando ne facevo il resoconto a casa. Ed intanto si vagava qua e là per il campo cercando di non mettere i piedi nelle pozzanghere.
Altra attrazione era costituita dal banco dei cavallari, cioè dei venditori di finimenti per cavalli, come briglie, comaci (collari), cinghie d’ogni genere, selle, tiranti, redini ed altro. Ogni volta mi fermavo ad osservare le scurie, cioè le fruste; tutte fatte a mano e ricavate da un unico pollone di sassifraga tagliato nel tardo autunno ed in calar di luna e poi lavorato durante l’inverno con grande pazienza ed abilità. Dei veri capolavori, perché per rendere questo legno più elastico e resistente, il fabbricante divideva il pezzo in tre, quattro parti in forma di aste sottili appuntite e poi le intrecciava tra loro; alla fine dipingeva ogni elemento a mano con colore diverso. A vendere questo tipo di merce era un certo Nane, detto anche “El Balbo”, altra macchietta che s’incontrava a San Valentin. Quando la conversazione si animava un po’ troppo, lui si agitava perché non riusciva a seguire il discorso e ad esprimersi con una certa speditezza; allora s’innervosiva così tanto da non cavar più una parola. I muscoli della faccia si contraevano, mentre questa diventava tutta rossa.
“Che..., Che..., Che...” continuava a balbettare mentre andava su e giù con la testa. A questo punto riprendeva fiato e poi si metteva ad imprecare con se stesso. Poveretto, era fatto così! Chi aveva un cavallo si fer­mava da lui anche per vedere le ultime novità.
Quel giorno s’incontravano vari venditori di sementi che esponevano la loro mercanzia in sacchetti mezzi aperti perché tutti potessero veder dentro il contenuto. Gli interessati partivano da casa con la lista delle sementi da comperare. Dopo qualche mese le avrebbero adoperate nell’orto o nei campi arati. Poi era la volta di Bortolo, noto per portare gli occhiali; ma questi andavano su e giù lungo il naso a seconda se alzava o abbassava la testa. Questi era piuttosto tarchiato. Di professione scarparo, cioè calzolaio, vendeva pezzi di cuoio, scarpe, scarponi fatti tutti a mano e poi zoccoli. In una serie di scatole c’erano chiodini di tutte le dimensioni e poi brocche, brocconi, spago, pegola, cioè pece, puntali in ferro e perfino legni per sgalmare. Si trattava di suole in legno leggero ma resistente, lavorate tutte a mano. Bastava ricoprire la parte superiore con cuoio e la calzatura era bell’e pronta. A sera anche lui aveva il ban­co tutto vuoto.
[…]
Ma la grande manifestazione si svolgeva nel pomeriggio: vi interveniva tutta la gioventù della zona. La fiera si trasformava in festa paesana. Era il momento più bello ed esaltante per i numerosi svaghi che l’animavano. Nelle varie bancarelle erano esposti tutti i tipi di sagra ed una montagna di dolciumi; in più c'erano spumiglie e tiramolla di tutti i colori che i venditori fabbricavano sul posto con i loro attrezzi. Un’altra attrazione era costituita dai croccanti fatti con noci, nocciole e soprattutto dai pennacchi bianchi e vaporosi dello zucchero filato. Donne, bambini, giovani, tutti sostavano per comperarsi qualcosa e così potevano gustarsi finalmente la bocca, visto che questi sfizi erano introvabili altrove. I più piccini strepitavano per avere un pallon­cino riempito d’aria compressa; ma, una volta in mano, questo spesso sfuggiva e così s’innalzava alto nel cielo, mentre l’interessato scoppiava in un pianto disperato. Fra madre e figlio avveniva a questo punto un vivace battibecco. Noi, che avevamo assistito alla scena, ci mettevamo a ridere, perché ogni volta si ripetevano le stesse frasi e si compivano sempre gli stessi gesti. Si trovava qualche raro banchetto di giocattoli in legno o in latta, che poi erano gli stessi che si vedevano circolare dopo la Befana. La plastica non esisteva allora; meno male. Insieme con i giocattoli si vendevano sacchettini di coriandoli, perché il carnevale era vicino.
Si pranzava presto, subito dopo ci si radunava in squadre e poi via a piedi attraverso campi. Era il momento più bello, fatto di scherzi, risate sonore, di racconti ameni ed anche di canzoni popolari. Un vero svago, un momento di spensieratezza. Ognuno si recava alla festa con in cuor suo tanti progetti, tanti sogni da realizzare. Questa tensione interiore creava in ognuno una certa ansia che ci faceva affrettare il passo. Davanti a noi si apriva una mezza giornata tutta nostra. Che bello era andare a San Valentino! Non importava se col ghiaccio o la neve. La cosa più importante era andarci.
Ci si preparava per tempo a questo grande avveni­mento mettendo da parte i risparmi, le mance: quelle del “Buon Principio” del primo giorno dell’anno. Ognuno s’ingegnava a far su un gruzzoletto. Quando arrivava il momento, si era tutti euforici. Noi in famiglia, per il numero dei componenti, formavamo squadra per conto nostro; a volte si univano ragazzi delle corti vicine e poi tutti insieme ci dirigevamo verso Scaldaferro; e da lì si era subito sul posto. Ci impiegavamo un tre quarti d’ora. Ogni volta era un’avventura. Durante l’inverno le mie sorelle riuscivano a mettere da parte un mucchietto di monetine metalliche. Le nascondevano in un sacchettino di tela preparato apposta. Un anno, prima della partenza, la mamma ci fece le solite raccomandazioni contro i ladri, che per noi erano gli zingari.
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Gli zingari a San Valentino erano una vera calamità perché sempre presenti ed attivi. Destrezza, scaltrezza ed avvedutezza erano le qualità più spiccate, che mettevano bene a frutto in questa festa campagnola. Le donne dalla gonna lunga e molta larga ronzavano da tutte le parti non per chiedere la carità ma per cogliere qualche ingenuo con la scusa di leggergli la mano e poi spennarlo bene.
La sagra di San Valentino era nota per le naranse, cioèle arance, e per le fave. Le prime erano il frutto della stagione perché belle, grosse, sugose, mentre le seconde co­stituivano la novità o meglio l’attrazione della festa. Arrivate direttamente dal sud d’Italia, quest’ultime venivano qui vendute cotte in acqua salata, che dicevano di mare. Avevano la consistenza di un fagiolo bianco appiattito. Il venditore le tirava fuori direttamente dal sacco con un mestolo ancor umide e poi le versava in un cartoccio a seconda dei soldi che l’acquirente presentava. Durante la festa tutti avevano a che fare con quei cosi bianchi che prima spellavano e poi cacciavano in bocca. Si vedeva dovunque gente intenta a ruminare quel legume che, a dir la verità, per me aveva un gusto piuttosto insipido.
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Quando andavamo alla festa, ci precipitavamo subito dalle naransare:due sorelle fruttivendole che costituivano una vera curiosità in quanto avevano una faccia piuttosto pienozza e rossa come il frutto che ven­devano. Troneggiavano davanti a mucchi di arance con cappello in testa e grembiulone sul davanti. Avevano però un difettino: bisognava stare bene attenti, perché, quando le arance venivano poste sulla bilancia, il peso dichiarato era sempre superiore a quello che l’ago della bilancia stabiliva; nonostante questo facevano affari d’oro. Il desiderio di gustare quel frutto tanto desiderato era troppo grande. Quando lo si aveva in mano, lo si mangiava tutt’intero, compresa la buccia, che poi lasciava sulla lingua un certo pizzicore. Allora non si sa­peva che cos’erano gli anticrittogamici, perché non erano ancora arrivati dalla Merica.
Se si avanzava qualche centesimo, lo si spendeva in spaghi di liquirizia, in bastoncini di dulcamara, in bagigi, carrube, straccaganasce o in zucchero filato. Al centro del campo sostavano due carretti: sull’uno si produceva lo zucchero filato entro un imbuto di latta che ruotava vertiginosamente su se stesso, mentre sull’altro la tiramolla: un miscuglio di melassa e zucchero fusi insieme in una boccia rovente. Di tanto in tanto l’uomo estraeva parte di quella pasta biancastra e cominciava subito a lavorarla fino a trasformarla in tanti spaghi lun­ghi che poi tagliava in pezzi pronti per la vendita. Questi erano i dolciumi e gli svaghi di cui noi poverelli ci accontentavamo, perché erano un diversivo al solito menu ed una novità che trovavamo solo a San Valentino. Il più delle volte non si arrivava a comperarci un pezzetto di tiramolla, un vero sfizio, perché i dindini, detti anche bessi, baiocchi, svanziche, erano volati via e la tasca era completamente vuota. Non ci restava che fare qualche giro per il grande prato, immersi in quel baccano infernale, per osservare da vicino le varie attrazioni con tanto di occhi sbarrati ed un desiderio irrefrenabile interiore verso tutte quelle cose. In questo modo, quando si era a casa, ci si vantava di aver visto tante robe nuove ed anche persone dall’abbigliamento insolito, perché tutto ciò che era diverso da noi e dal nostro mondo costituiva una curiosità e quindi oggetto di lunghe discussioni in casa e a filò.
I più grandi, che avevano qualcosa di più di noi nella loro musina (salvadanaio), si permettevano qualche giro in giostra. In genere andavano su quella delle careghete, detta anche dei calcinculo, perché, quando girava, i più bravi si divertivano nel dare spinte così forti al proprio seggiolino da raggiungere quello che li precedeva colpendolo con una certa violenza. Lo facevano per divertirsi e per mostrare al pubblico sottostante la loro bravura; ma colui che riceveva un simile complimento non sempre era contento. Ogni volta che andavo a San Valentino si ripeteva una scena tragicomica in cui i ragazzini più indisposti, nel vedersi girare sospesi nell’aria, erano ben presto presi dalla paura e dalle vertigini che provocavano uno scombussolamento generale con conati di vomito. E così si vedeva il poverino, bianco come un cencio e con le mani davanti alla bocca, che ad un certo punto disseminava certe strane cosette colorate sopra le teste dei presenti che, accortisi dell’inconveniente, fuggivano da tutte le parti fra grida d’imprecazione, d’orrore e sonore risate. A volte il divertimento si concludeva con qualcosa di più tragico, come un dente rotto a causa della violenza del colpo ricevuto da dietro.
 “Te gavevo dito de no andare su. Ecco cossa che te ghe ciapà! Chi xé sta?” diceva la madre al piccolo infortunato.
“Xé sta quelo là”. E, mentre così rispondeva, si girava per indicare il responsabile, ma costui si era dileguato da un bel po’.
La giostra delle gabbie, poi, era riservata ai più esperti e forzuti, perché, grazie al coordinamento della spinta impressa dalle braccia insieme con quella delle gambe, riuscivano a far ruotare la gabbia su se stessa, facendo così il “giro della morte”, e poi continuavano in questo divertimento anche mezz’ora. Non mancavano mai i baracconi col tiro a segno con fucile ad aria compressa e poi il lancio del peso: una specie di misuratore della forza impressa da un potente pugno su una staffa metallica. Ma la sagra di San Valentino aveva sul piano affettivo e relazionale per molti giovani una funzio­ne fondamentale di primaria importanza perché occasione preziosa per fare nuove conoscenze e per allacciare rapporti con l’altro sesso che spesso si concludevano in chiesa davanti all’altare, cioè molti ci andavano per trovarsi il moroso o la morosa.
Che festa indimenticabile quella di San Valentino!
Ogni anno a quella data giovani ed anziani si ritrovavano su quello spiazzo erboso per rinnovare un rito che si perdeva nella notte dei tempi però sempre con un certo entusiasmo e tante speranze. Ma al calar del sole, cioè poco prima delle diciassette, al suon dell’Ave Maria, tutta quella folla che si era assiepata durante la giornata in quel luogo, si era già dileguata e così ogni frastuono era scomparso; e su quel campo di battaglia era ritornato ormai il silenzio; proprio come voleva la tradizione.
E così dopo ogni San Valentino la vita in paese riprendeva con maggiore slancio sollecitata dal desiderio e dalle premesse di una nuova e più prosperosa stagione, ricca di messi e di tante soddisfazioni nel lavoro dei campi: punto di riferimento di ogni attività produttiva».
 
 
La Fiera di S. Valentino, durante i primi anni della meccanizzazione, era famosa non tanto per i grossi macchinari fabbricati dalle grandi industrie ma soprattutto per certi «trabiccoli» fatti in casa frutto dell'ingegno e dell'acume di piccoli artigiani e degli stessi coltivatori che mettevano a frutto la loro esperienza. Tra questi «trabiccoli» spiccava la celebre «derivata carioca», una specie di trattore appositamente concepito per la lavorazione dei campi e la raccolta del fieno. Il nome «derivata» trae origine dal fatto che, agli inizi, tali macchinari! erano costituiti da vecchissimi camioncini (dei primi del secolo) ai quali veniva demoltiplicata la trasmissione allo scopo di aumentare la potenza; se si adattava anche un semplice dispositivo potevano funzionare anche a petrolio agricolo. Erano l'ideale in zone erbose pianeggianti ed erano usati per trainare le falciatrici e trasportare fieno. LA «DERIVATA CARIOCA»
Il perché dell'appellativo «carioca» non ci è dato sapere ma si ritiene che forse potrebbe essere la storpiatura del nome di qualche famosa marca.
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