Comune di Salgareda

SOTO QUA NO PIOVE! - La profezia di un vecchio di Salgareda - di RENZO TOFFOLI

Pubblicata il 07/04/2021

Articolo tratto dal periodico "IN PIAZZA" 25-03-2021
pag. 16-17

http://www.in-piazza.com/01-2021.html

A Salgareda, come in ogni comune italiano durante il Ventennio, il partito fascista organizzava le adunate sul piazzale antistante al Municipio, davanti alla casa del Fascio e alle scuole elementari. Tutti erano “caldamente” invitati a partecipare e si prendeva un’accurata nota degli assenti. Come ben sappiamo, chi non ottemperava alle disposizioni del regime o aveva l’ardire di formulare qualche protesta, veniva “curato” con qualche oncia di olio di ricino e, se le mancanze presentavano una certa gravità, all’olio si univa anche una buona dose di manganellate. Abbiamo raccolto molte testimonianze in proposito tra gli anziani di Salgareda, ma ne riportiamo una in particolare, perché l’avvenimento fu, a suo modo, profetico. Martedì 5 maggio 1936 il generale Badoglio entrò ad Addis Abeba, completando la conquista dell’Etiopia e donando così, metaforicamente, la corona imperiale a Vittorio Emanuele III. Lo sconfitto per eccellenza era l’imperatore etiope Hailé Selassié, il cui nome significava: «Potenza della Trinità», ritenuto l’ultimo discendente della stirpe di Salomone e della regina di Saba; questo sovrano era denominato anche Negus o Re dei Re. Per celebrare la conquista dell’Etiopia, il regime indisse nella capitale ben due manifestazioni: l’una il giorno stesso della conquista e l’altra sabato 9 maggio per la proclamazione dell’impero. A Salgareda il partito fascista organizzò il 9 maggio un’unica manifestazione che le riassumeva entrambe. A conclusione di questa adunata e dei discorsi patriottici e apologetici di rito, il protocollo prevedeva l’incendio di un manichino che simboleggiava il Negus. A questo fantoccio era stato applicato anche un ombrello aperto; infatti, nelle immagini di repertorio di allora, si vedeva l’imperatore etiope camminare con un parasole per proteggersi dai raggi solari. La pira era stata preparata in centro al paese, in un prato dove attualmente c’è la casa di Oscar Piovesan. Alcuni aitanti giovani fascisti appiccarono il fuoco tutt’attorno in più punti e la catasta di fascine bruciò con rapidità; con la stessa velocità il fuoco avvolse tutto il manichino che aveva gli abiti riempiti di paglia, ma l’ombrello aperto, stranamente, non prese fuoco e rimase intatto. Allora un vecchio ultraottantenne disse all’amico che gli stava a fianco: “Atu vist Toni, che a ombrèa no a se à brusà, vol dir che soto qua no piove!”. Il vecchio, metaforicamente, voleva sostenere che, non essendosi bruciato l’ombrello, il Negus non si poteva considerare definitivamente sconfitto e, prima o poi, sarebbe tornato a regnare sulla propria patria.
Purtroppo, una delle spie che il regime disseminava in mezzo alla folla in quelle occasioni per ascoltare eventuali discorsi “sovversivi”, udita e compresa nel suo significato di critica la frase dell’anziano compaesano, si affrettò a denunciarlo al segretario politico del partito fascista di Salgareda. All’anziano non fu riservata nessuna pietà: condotto nei sotterranei delle scuole elementari da poco costruite, gli fu fatto bere un significativo quantitativo d’olio di ricino, ma gli fu risparmiato il manganello. Poi il segretario politico e il podestà, con i loro accoliti, soddisfatti di quell’azione “rieducativa”, seduti al tavolo del bar Zanella (l’attuale bar centrale o bocciodromo) davanti ad una bottiglia di vino, ad alta voce, perché quanto da loro commentato servisse da monito ai presenti, dissero che il vecchio era talmente contento di aver bevuto l’olio che alla fine si leccava i lunghi baffi pendenti ai lati dalla bocca.
Bruciare fantocci di figure istituzionali, libri e bandiere sulle piazze, non ha mai portato fortuna a coloro che l’hanno fatto. Infatti, l’affermazione del vecchio fu profetica: solo sei anni dopo, il Negus ritornò a regnare sul suo paese.
Quest’episodio, che mi è stato riportato da più persone sin da bambino, mi è venuto in mente cinquant’anni fa quando vidi Hailé Selassié da vicino la sera di venerdì 13 novembre del 1970, mentre assistevo ad un concerto sinfonico al teatro La Fenice di Venezia. A quel concerto l’ospite d’onore era il vecchio monarca etiope in visita di Stato a Venezia per un paio di giorni, dopo aver partecipato in Francia ai funerali di De Gaulle e di ritorno da Torino dove aveva fatto visita alla tomba della figlia, Romanework, morta di tubercolosi (14.10.1940). A questo proposito ricordiamo che la figlia del Negus, dopo l’uccisione del marito in Etiopia da parte delle nostre truppe, fu fatta prigioniera di guerra con i suoi quattro figli e deportata nel campo di concentramento dell’Asinara in Sardegna. In quel luogo fu riconosciuta da mons. Gaudenzio Barlassina, superiore generale dei Missionari della Consolata, il quale, grazie all’interessamento della regina Elena, ottenne che la prigioniera (assieme ai figli) fosse affidata in custodia alle suore missionarie della Consolata le quali, alla sua morte, la tumularono nel cimitero monumentale del capoluogo piemontese in una tomba anonima che porta solo la scritta: “A una mamma”. Ebbene, si diceva, quella sera alla Fenice il Re dei Re stava ritto in divisa militare di gala, affacciato alla balconata del palco reale, mentre l’orchestra suonava l’inno imperiale etiope. In quel momento, tutta la platea era in piedi e rivolgeva lo sguardo verso il palco reale, mentre io occupavo un posto di parapetto nella medesima fila, poco lontano dal palco d’onore, per cui potevo vedere bene il volto dell’imperatore nei particolari. Era piccolo, magro, con una barba grigia; le luci del teatro proiettavano sulla sua pelle ocra dei riflessi azzurri, ricordo benissimo i suoi occhi vivissimi, penetranti. Mi vennero allora spontanee alcune considerazioni: innanzitutto che il Negus era tornato nella “sua patria” e a regnare sul “suo trono”, mentre Mussolini che lo aveva cacciato, dopo aver chiesto agli italiani di dare la “loro vita per la patria”, era stato catturato mentre fuggiva dalla “propria patria” per salvare la “propria vita”. Ma il pensiero dominante era rivolto all’episodio di Salgareda e osservando l’altera dignità che quel piccolo imperatore etiope ostentava dal palco reale della Fenice, ebbi la dimostrazione incontrovertibile dell’avverarsi della profezia che il vecchio di Salgareda aveva vaticinato trentaquattro anni prima, mentre in piazza bruciavano il fantoccio dell’ultimo discendente della stirpe di Salomone: “Soto qua non piove!”

Foto 1: L’adunata tenutasi davanti al municipio di Salgareda sabato 9 maggio 1936 per la presa di Addis Abeba e la proclamazione dell’impero. (Archivio fotografico Renzo Toffoli)
Foto 2: Il vecchio di Salgareda che pronunciò la fatidica frase: “Soto qua no piove!”. (Archivio fotografico Renzo Toffoli)
Foto 3: L’imperatore etiope Hailé Selassié in visita a Venezia nel 1970 (Immagine dal quotidiano “La Stampa”)
Foto 4: L’imperatore etiope Hailé Selassié.  (Immagine di repertorio)
Foto 5: Romanework, figlia di Hailé Selassié, con due dei suoi quattro figli.  (Immagine di repertorio)

 

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