Comune di Salgareda

LA VOCE DEL SANGUE - di Renzo Toffoli

Pubblicata il 22/12/2020

Nel 2018, pubblicammo un libro, per i tipi di “Giacobino Editore”, dal titolo “Basta nono parlarme dea guera!”. Questa pubblicazione conteneva i ricordi di guerra di Massimiliano, un fante di Ponte di Piave che li scrisse in un quaderno verso il 1923. Per restare in tema di quel conflitto, ci fermammo al suo congedo avvenuto il 30 ottobre 1919 in Carinzia a Feldkirchen, ma le sue annotazioni proseguivano con altri ricordi. Ne pubblichiamo di seguito uno, sinora inedito, che ci sembra estremamente significativo di un aspetto poco trattato dalla memorialistica della Grande Guerra, pervaso da un’incredibile e straziante eccezionalità.
Per garantire la riservatezza richiestaci dalla famiglia, non abbiamo mai pubblicato il cognome del fante e lo abbiamo nascosto nella foto della copertina del suo quaderno.
“Ritornato dopo il congedo nel borgo delle Fontane a Ponte di Piave, non vi trovai più la mia famiglia. Chiesi notizie a coloro che abitavano nelle baracche vicine, che erano appena rientrate da Pavia di Udine dove erano sfollate durante l’occupazione, e mi informarono che mio papà Paolo non aveva più rinnovato il contratto di mezzadria con il signor Pavan, proprietario della campagna, per cui con tutta la famiglia si era trasferito a  Salgareda, dove avevano pattuito un nuovo contratto con il signor Rebecca. Andai a Salgareda e vidi che abitavano in una baracca vicino alla chiesa. La grande campagna di Artico che dal cimitero andava fino a Talponada, era stata divisa a metà. Una parte era ancora lavorata dagli Artico e l’altra da noi. Lavorata, era solo un modo di dire, perché quella campagna assomigliava più ad un campo di battaglia che ad un campo coltivabile. Prima di poter lavorare il terreno dovevamo aiutare gli operai militari del Genio che stavano raccogliendo le granate non scoppiate, i fili spinosi, la pista ferroviaria a scartamento ridotto, e far saltare con l’esplosivo vari ricoveri in cemento armato. Eravamo veramente messi male ed era dura da vivere, Nella baracca abitavamo in undici persone: la vecchia nonna Catina di 85 anni, mio padre e mia madre, noi quattro fratelli e le mie cinque sorelle. Per fortuna con le pietre della grandissima casa vecchia di Artico, distrutta dai bombardamenti e che si dice fosse un vecchio convento, Cesare Borin stava già costruendo le due case per le nostre due famiglie di mezzadri C’erano tante bocche da sfamare e il primo raccolto sarebbe venuto dopo forse un anno e mezzo. Ma il buon Dio, nel quale ho sempre sperato e pregato durante tutti questi anni di guerra, mi aiutò anche stavolta. Sotto le armi avevo avuto buoni rapporti con don Cesare Bonini, un buon cappellano militare di Brescia; questo prete era ancora sotto le armi e stava raccogliendo e sistemando le salme dei caduti nei cimiteri di guerra. Siccome il cimitero dei tedeschi di Salgareda confinava con la nostra campagna, lo incontrai che portava a seppellire le salme di due nostri soldati morti in sinistra Piave, forse in prigionia. Don Cesare mi chiese se lo volevo aiutare in quel lavoro che lui stava facendo nei vari campi di battaglia. Mi disse anche che sarei stato pagato con una buona decade, più di quella che ci davano in guerra. Siccome sarei stato spesato di mangiare e dormire, pensai che tutti i soldi della decade li potevo spedire alla mia famiglia che ne aveva tanto bisogno. Gli dissi subito di sì. Iniziai il mio lavoro il giorno dopo al cimitero di Fossalta di Piave e lì lavorai per un paio di mesi. Poi ci siamo spostati sul fronte orientale in diversi luoghi e monti nei quali avevo combattuto: Oslavia, Piuma, Plava, Sabotino, Podgora, San Michele. Monte Santo e tanti altri ancora. Lavorai in quei posti con don Cesare fino a tutto giugno del 1922. Tanti sono gli episodi che ho visto, ma voglio ricordare solo l’ultimo, che avvenne nella dolina Edera di Plava, pochi giorni prima del mio ritorno a casa e che mi è rimasto più impresso. Sapendo che Don Cesare stava tirando fuori i cadaveri da questa dolina, una donna di Brescia, sua conoscente, gli scrisse una lettera chiedendo di essere presente al ritrovamento del figlio morto in quel luogo. Don Cesare gli rispose che la dolina Edera era come un grande cimitero e dopo anni non era più possibile riconoscere l’identità dei caduti perché i ruolini di carta racchiusi nella scatoletta di latta che ogni soldato aveva con sé e riportavano l’identità del caduto, non erano più leggibili. La donna non rispose, ma si presentò alla dolina dopo una settimana o forse poco più, verso la sera dell’otto giugno. Per pietà verso la povera madre, don Cesare le permise di assistere agli scavi. Il primo giorno stette seduta su un masso, senza mai parlare, vedendo portare alla luce decine e decine di poveri resti. Il giorno dopo, prima che noi iniziassimo il lavoro, era già sul posto e continuava a scrutare ogni scheletro che recuperavamo. Quasi a mezzogiorno, mentre portavamo alla luce uno dei tanti scheletri, la povera mamma si mise ad urlare: “Quello è mio figlio!” Lo scheletro era come tutti gli altri e don Cesare, avendo pena della poveretta, le disse che, se era caduto lì, forse era anche possibile, di sicuro si trovava in quel luogo. Ma la donna non lo ascoltava: inginocchiata accarezzava quelle ossa e ne baciava il teschio: una scena straziante che mi fa venir le lagrime anche oggi. Ripreso lo scavo, sotto pochi centimetri dove giacevano quelle ossa, trovammo un tascapane. Lo aprimmo e c’erano delle lettere e delle cartoline, alcune ancora leggibili: erano le lettere che la povera donna aveva inviato al figlio. L’indirizzo del mittente ne era la prova. Ma alla donna quelle lettere non interessavano, tirò fuori un lenzuolo che, come ci disse, lei stessa aveva ricamato per il figlio per quando questi si sarebbe sposato, lo stese a terra, ne ripose sopra quei poveri resti e, legati assieme con un nodo i quattro angoli, si buttò sulle spalle quel fardello e se ne andò. Don Cesare e noi tutti rimanemmo sconvolti che la donna avesse riconosciuto in quelle ossa anonime quelle del figlio, ma per lei no, per lei era naturale averlo riconosciuto in quei poveri resti per noi tutti uguali. Le lettere ritrovate servivano a noi per il riconoscimento, non a lei che, anche senza il loro ritrovamento, era certa di aver ritrovato suo figlio. Questa sua sicurezza le era data dalla voce del sangue!”

Foto 1: Il fante Massimiliano, ripreso nello studio fotografico “Billi” di Firenze durante il suo addestramento nel 69 reggimento di Fanteria “Ancona”, nel Marzo del 1915. (Archivio fotografico Renzo Toffoli)
Foto 2: La copertina del quaderno dove Massimiliano ha scritto i suoi “Ricordi di Guerra”. (Archivio fotografico Renzo Toffoli)
Foto dalla 3 alla 7: le pagine del quaderno riportanti quest’episodio. (Archivio fotografico Renzo Toffoli)

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